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lunedì 15 febbraio 2010

Scuola : Stop Didattico....settimana Bianca....solo un privilegio per pochi ragazzi fortunati.....e gli altri?

Prof. Luigi Vassallo - Finale Ligure - Provincia di Savona -

Una lettera del Direttore Scolastico Regionale della Liguria ai dirigenti scolastici, facendo seguito a dubbi di numerosi dirigenti scolastici e a perplessità della stessa Corte dei conti, ha acceso i riflettori sulla questione del cosiddetto “STOP DIDATTICO”, provocando nelle scuole dibattiti e tentativi di “metterci una pezza”, ripresi in parte anche dalla stampa locale.
In sintesi, il Direttore Regionale ha ricordato che la delibera del Consiglio di istituto sul cosiddetto stop didattico è legittima solo se si limita a sospendere (fatti salvi gli almeno 200 giorni di lezione) le attività curricolari cioè le lezioni tradizionali, ma non deve comportare la sospensione di qualsiasi attività formativa. A tal proposito il Direttore raccomanda ai dirigenti scolastici di non ignorare le esigenze di una parte dei genitori (fosse anche minoritaria) che chieda (sia pure sotto il profilo assistenziale) una continuità di funzionamento della scuola non avendo come sistemare altrimenti i propri figli e di non dimenticare che i risultati non brillanti della preparazione degli allievi che emergono dai test nazionali e internazionali nonché le dichiarazioni dei docenti negli esami di stato sul fatto che non c’è stato tempo per completare i programmi inducono a ritenere opportuna una programmazione di attività formative alternative anche durante il cosiddetto stop didattico.
Per quanto mi riguarda, come preside di un liceo, dall’anno scolastico 1986-1987 promossi, col sostegno del Collegio dei docenti e del Consiglio di istituto, una “settimana alternativa” alle lezioni tradizionali subito dopo la conclusione degli scrutini del 1° quadrimestre. Gli studenti erano liberi di partecipare o meno alle attività alternative: alcuni se ne stavano a casa o andavano in vacanza con i genitori; altri venivano e partecipavano attivamente, assumendo talvolta anche il ruolo di formatori o “insegnanti” in attività particolari. I docenti venivano tutti, secondo il loro orario di servizio: alcuni partecipavano attivamente e creativamente mettendo in campo le loro risorse di formatori; altri vagavano per i corridoi come pesci fuor d’acqua, essendo stati privati della “coperta di Linus” del registro e del rituale delle interrogazioni e delle spiegazioni.
Poi, con l’avvento della cosiddetta autonomia scolastica, si diffuse la moda degli “stop didattici”, con i quali non poche scuole superiori cercavano di attirare allievi, vantandoli come esempio della loro modernità. A questa moda fui – da dirigente scolastico – sempre contrario e, per mia fortuna, non mi trovai mai contro un Consiglio di istituto.
Ero e sono contrario agli “stop didattici” (anche ora che la questione, per certi aspetti, non mi riguarda) per alcuni motivi di fondo:
Chiudere la scuola, solleticando la “pancia” di famiglie e studenti (che sembrano vivere la scuola come un luogo che è meglio evitare il più possibile), significa ridurre a vuota retorica gli appelli e i discorsi sulla “centralità e insostituibilità” della scuola. Come reagirebbero i cittadini se un ospedale praticasse una sorta di “stop sanitario”? E come reagiscono quando trovano che il “loro” bar è chiuso per ferie?. Se, invece di essere infastiditi, si è indifferenti o contenti per la chiusura della scuola, vuole dire che il suo funzionamento vale meno di quello di un ospedale (e questo lo si può anche capire) e meno di quello di un bar (e questo lo capisco ugualmente, ma lo accetto di meno).
Praticare con lo stop didattico l’artificio giuridico per cui gli insegnanti (a differenza del restante personale della scuola) sono in servizio nei giorni delle vacanze di Natale, delle vacanze di Pasqua, delle vacanze estive (per il periodo che eccede le ferie ufficiali) e nei giorni di stop didattico, ma non devono venire a scuola, a meno che non abbiano programmato essi stessi attività formative o non si verifichi (raramente) un’emergenza che costringa il dirigente scolastico a convocarli, ebbene questo artificio giuridico mi sembra una “mancia” (tollerata dall’Amministrazione scolastica e, in qualche modo, legittimata dai Sindacati della scuola) che non solo offende la dignità degli insegnanti ma, soprattutto, evita di affrontare con coerenti strumenti contrattuali ( e quindi con una rivalutazione del lavoro degli insegnanti sul piano economico e normativo) la questione della specificità di un lavoro usurante qual è quello degli insegnanti, soprattutto oggi.
Gli insegnanti del liceo diretto da me fino al mio pensionamento non si sono opposti al mio rifiuto degli stop didattici, di conseguenza il Consiglio di istituto (che almeno su certe questioni è ispirato e orientato dagli insegnanti) non li ha mai deliberati. Probabilmente le mie motivazioni non convincevano gli insegnanti, ma essi si limitavano a “sopportarmi” come si fa con un vecchio zio (o nonno) di cui si riconoscono certe qualità e si tollerano certi capricci anacronistici, nell’attesa che prima o poi vada via di casa. E, infatti, dopo il mio pensionamento il “mio” liceo si è allineato alla pratica delle altre scuole in materia di stop didattici: evidentemente gli insegnanti hanno (legittimamente) seguito un punto di vista diverso dal mio, cosa che non fa venire meno la mia stima nei loro confronti.
Sulla questione merita di essere preso in considerazione un altro punto di vista, che ho letto nelle pagine genovesi del quotidiano “La Repubblica”, punto di vista sul quale vorrei richiamare l’attenzione di chi crede ancora nella funzione della scuola come luogo per la crescita democratica delle persone.
Vittorio Coletti, in un articolo di domenica 14 febbraio 2010, scrive:
“La polemica sull’apertura degli istituti è solo il paravento dietro cui l’ipocrisia dominante occulta una triste verità: la settimana bianca è diventata un privilegio concesso a pochi. La maestra Sandra R., su 26 bambini, sa che solo 6 andranno a sciare nella settimana di sospensione. La professoressa Carla G., 7 alunni su 28.Il polverone sugli orari nasconde la gravissima forma di discriminazione sociale che è diventata la settimana bianca nell’età berlusconiana.(…) I presidi, che discutono se chiudere o tenere aperto, evitano di porsi la domanda essenziale. Chi, quanti vanno alla settimana bianca? Chi può permetterselo?(…) Il problema non è tanto, dunque, se tenere aperte o chiuse le scuole (la vacanza, a casa, la fanno comunque quasi tutti, ci mancherebbe); quanto che la loro chiusura evidenzia una odiosa differenza tra i nostri figli e nipoti, tanto più percepibile, come mi fa notare Paolo Arvati, nei piccoli centri, dove i ragazzi condividono muretti e “vasche” ogni giorno, ma poi si dividono al momento delle vacanze sulla neve: in montagna i pochi fortunati, in città la massa crescente di quelli che non possono (più) permetterselo.(…) E’ gravissimo che la scuola non denunci questa ingiustizia, motivo di vergogna e frustrazione per tanti incolpevoli ragazzi e le loro famiglie. C’è una generazione di umiliati e offesi nelle nostre aule, che cresce ogni anno in parallelo con le nuove mortificazioni diffuse. Aumentano quanti non proseguono negli studi, per la difficoltà a sostenerne i costi (secondo il MIUR gli iscritti alle università stanno diminuendo progressivamente, sia in assoluto, che in percentuale sui 19enni); aumentano quelli che non possono neppure più andare un paio di giorni in montagna a sciare. I docenti dovrebbero aiutare questi nuovi esclusi da una società che impone standard ormai solo per privilegiati, praticabili da pochissimi, a guardare in faccia la loro umiliazione senza finzioni e a tradurla in pacifica e dignitosa voglia di riscatto culturale e sociale. Altro che discutere sugli orari!”


L’intervento di Coletti non è di quelli che si possono sfogliare distrattamente; chiama in causa il senso della scuola nel presente e il ruolo dei docenti nel presente.
A ciascuno la risposta che ritiene di dover dare.