27 gennaio (Giorno della Memoria): si ricorda l’orrore della Shoah.
10 febbraio (Giorno del Ricordo): si ricorda il massacro di italiani nelle foibe da parte dei “comunisti” di Tito (ma c’erano “comunisti” anche tra gli italiani gettati nelle foibe).
Una scuola che si puntella sulla retorica delle “giornate” come quando si illude di essere moderna e avanzata moltiplicando i microprogetti?
O, al contrario, una scuola che, anche “sporcandosi le mani” con ricorrenze scomode, continua a dipanare il filo di una riflessione critica?
PER NON DIMENTICARE: non solo per dovere morale verso le vittime (della Shoah, anzitutto, ma anche di tutte le ripetute violenze nella storia umana), ma verso noi stessi, per non ritrovarci un giorno ad essere noi le vittime o i complici attivi o silenziosi di un orrore più o meno grande.
PER NON DIMENTICARE: perché ciò che è accaduto con la Shoah (la cui unicità è costituita dal progetto razionale e scientifico di utilizzo coerente di tempi, spazi, mezzi e strumentazioni tecniche per annientare i “diversi”, soprattutto ebrei) e ciò che è accaduto e accade ogni volta che con la violenza si cerca di eliminare altri esseri umani non è il frutto di cattive influenze astrali ma è il prodotto della storia umana, cioè è il frutto di convergenze di elementi materiali e psicologici, sui quali dobbiamo aprire gli occhi.
PER NON DIMENTICARE che la possibilità dell’orrore è sempre in agguato nella dimensione collettiva e in quella individuale della nostra vita, ogni volta che le conquiste della tecnica procedono separate dalle conquiste dell’etica.
E qui la scuola ha il dovere di pronunciare un giudizio non ambiguo: ciò che è accaduto è frutto di convergenze storiche su cui dobbiamo fare luce (questo significa lettura critica e questa lettura critica è l’antidoto contro il ripetersi della storia).
Per certi aspetti dobbiamo “avere pietà” anche dei carnefici e dei loro complici, nel senso che nessuno di noi può dire con certezza da che parte si sarebbe trovato o schierato; tutto questo, però, non vuol dire considerare intercambiabili carnefici e vittime.
O siamo solidali con chi si giustifica per aver obbedito a un ordine, per aver taciuto per paura, per aver creduto di essere nel giusto, per non aver saputo quello che accadeva o, al contrario, siamo solidali con chi è stato spogliato della dignità umana, con chi non è stato complice, con chi si è ribellato.
Giudizio storico, dunque, ma anche giudizio etico, senza il quale ripensare la storia si ridurrebbe a retorica celebrativa, che è proprio quello di cui la scuola e i nostri giovani non hanno bisogno.