Quaderni di Frontiera é uno spazio di cultura politica, uno strumento di riflessione pubblica che ha come obiettivo quello di alimentare la discussione allargandone il campo a professionalità e competenze. E’ un luogo dove possono incontrarsi e confrontarsi le diverse tradizioni culturali e politiche, sviluppando idee e proposte in grado di contribuire a ridefinire il campo progressista, guardando all’Europa e alle sfide internazionali.

mercoledì 9 dicembre 2009

Siamo dentro alla Resistenza, ma non lo sappiamo....

di Maglio Domenico

Ci sono periodi storici, epoche intere durante le quali gli uomini o la natura sono soggetti a cambiamenti destinati a incidere per sempre nel futuro evolversi dell’umanità, del suo modo di esistere, di vivere e anche di morire.
Così è stato da quando l’uomo esiste.
Nel corso dei millenni l’intelligenza ci ha portato a piccoli o grandi passi verso il domani, verso ciò che ci aspettava; la scienza ha spalancato le porte a nuove scoperte spostando la linea di confine a soglie impensabili, la fede ha supportato le coscienza laddove queste si sentivano a torto o a ragione sperse.
Dall’età della pietra all’impero romano, dal medioevo alla rivoluzione industriale sempre l’uomo è stato l’artefice del suo destino, nel bene e nel male passando anche tra guerre fratricide e genocidi.
Tutto il ‘900 in particolare lo ricordiamo molto spesso per questo, forse anche perché ci è più vicino, forse perché qualcuno ce lo può ancora testimoniare con i suoi racconti, forse perché ce lo sentiamo ancora addosso.
Ma oggi questi primi anni del nuovo millennio saremo noi a doverli un giorno raccontare.
Siamo noi oggi che facciamo la storia moderna, quella del mondo, dell’Europa e dell’Italia.
Ma altri la leggeranno o la ascolteranno dalle nostre voci solo se noi la scriveremo.
Se non lo faremo noi lo farà qualcun altro, raccontando la sua verità.
La scriveremo partendo da noi, dal nostro paese che tanto ha già dato, tante volte ha sofferto, ha conquistato la sua libertà e la sua democrazia, rialzandosi sempre.
Oggi in Italia tutto questo status Repubblicano conquistato con inenarrabili sacrifici si sta fermando, sta cominciando a mancare l’aria e un senso di asfissia piano piano stringe la gola.
La ruota dei diritti, della giustizia e della libertà sta rallentando, c’è una sbarra di acciaio che è stata infilata tra le razze di quel legno antico che regge l’asse istituzionale del nostro paese.
Non è un’esagerazione, ma una realtà la cui prospettiva sgomenta talmente che se ne autoimpone spesso la negazione.
Noi stiamo vivendo questa e poca italiana.
Il mondo è nel pieno di una nuova transizione, ma questa volta all’interno della stessa epoca.
Lo hanno detto in molti, tutto cambierà, radicalmente.
Muteranno i rapporti tra gli Stati, tra gli uomini, tra l’uomo e la natura, negli scambi commerciali, nel comunicare, nel lavoro.
Diritti nuovi si affacceranno, altri conquistati che parevano intoccabili saranno messi in discussione, alcuni lo sono già, altri saranno negati.
Ma negati da chi? E in nome di che cosa?
Chi ha il diritto di arrogarsi il diritto di negare un diritto a chi ne ha diritto?
Ed è solo una delle domande che nascono ad ogni ragionamento più attento.
La globalizzazione ha solo accelerato il processo di trasformazione ineludibile, imprescindibile, inarrestabile che ha rotto l’inerzia del secolo breve, nessuno avrebbe potuto fermarlo preventivamente e nessuno pur se autocaricato di misticismo divino avrebbe potuto governarlo da solo.
La crisi economica e finanziaria è figlia di questo impatto globale, ma non figlia unica, ha fratelli e sorelle che si affacceranno con tutto il loro carico dirompente via via che la situazione evolverà.
Con il senno di poi possiamo azzardare che l’errore è stato quello di non rendersi conto che questa fase ci stava già avvolgendo, ci siamo trovati non pronti a qualcosa che era li e che nessuno è stato in grado di vedere e di soppesare in tutta la sua forza impattante, non l’avremmo fermata ma ci forse ci saremmo difesi.
Le grandi migrazioni di uomini e donne, di popoli interi, verso la pace, verso la ricerca del lavoro, la loro fuga dai teatri bellici, la loro voglia di una vita più serena, lontana da guerre e massacri hanno dato la dimensione di come nessuna frontiera può essere presidiata con una riga su una carta.
Milioni di uomini e donne hanno perso quel lavoro che gli dava la dignità di esistere, milioni di giovani di oggi guardano al domani cercando di capire che sarà di loro, milioni di giovani di ieri guardano l’oggi con rassegnazione e impotenza.
Ma tutte queste persone hanno la voce.
Queste persone pensano, ragionano, valutano, parlano, soffrono con dignità la loro condizione chiudendosi in orgogliosi silenzi, guardano all’opulenza che nega spudoratamente l’evidenza della loro condizione sociale, covano un risentimento che si mischia a rabbia, a voglia di riscatto, da ottenere per se e per i loro figli.
Se nessuno penserà a loro, se nessuno gli darà ascolto faranno da soli, magari istigati da qualche fanatismo non sopito.
Questa è la miscela più pericolosa.
Ma ancor più pericoloso è colui che ne sottovaluta con arrogante sufficienza i possibili effetti, additando il tutto come un qualcosa da lasciare decantare e che rientrerà naturalmente nella normalità.
Una composto rischioso, che può esplodere in ogni momento, con effetti difficilmente prevedibili, e stolto e irresponsabile è colui che tenta di innescare questa deflagrazione richiamando guerre civili.
Che sarebbe successo se il manipolo privato di picchiatori lanciato contro gli operai di Eutelia non fosse uscito indenne da quella fabbrica romana?
Che sarebbe successo se il senso di responsabilità di quegli operai non avesse prevalso?
Se avessero risposto alla violenza con altra violenza?
Non lo hanno fatto, non hanno risposto a quella provocazione e hanno insegnato a tutti che esiste un’altra via e che credono nella giustizia.
Ma a volte basta una piccola scintilla per incendiare la pianura, soprattutto se questa pianura è coperta di erbacce secche, se è stata svuotata e prosciugata di valori.
Nel nostro paese la terra si sta inaridendo proprio di valori, di quei valori tradizionali che troppo frettolosamente abbiamo pensato fossero superati, valori di solidarietà, di giustizia, e bisogna non smettere di annaffiarla questa nostra terra, annaffiarla di democrazia prima che diventi deserto e preda di qualsiasi scintilla.
Nel nostro paese si sta formando una sbagliata concezione del vivere civile, con il palese e dichiarato fastidio per le Istituzioni ritenute un impiccio nelle sue espressioni parlamentari, con le troppe insofferenze per codici e leggi che si vogliono plasmare per convenienza, con la palesata arroganza e supponenza negli approcci sociali, con i soventi rigurgiti di razzismo, con gli insulti ai cultori delle fedi, con la troppa povertà crescente che non si vuole vedere, con la troppa voglia di trasformare la repubblica in monarchia, assoluta come qualcuno ha detto.
Ma questo modello di società fatta di imposizioni e bavagli non può avere alcun futuro nel mondo libero, la società dell’apparire che denigra ogni merito e che fonda il suo potere sull’intimidazione è destinata alla catastrofe.
Bisogna stare attenti che quando tutto questo affonderà non trascini volutamente con se anche tutto il resto.
Noi stiamo vivendo in Italia questo periodo storico.
Un periodo straordinario nei suoi bui richiami a un antico ancora troppo recente.
Un periodo che solo uomini e donne dalla volontà forte riusciranno a dominare e raddrizzare.
Questo è il periodo in cui siamo immersi.
E’ il momento delle volontà forti, dei nervi saldi e delle responsabilità di tutti coloro che credono che sia sempre possibile avere una società migliore, sempre, che tutto possa essere cambiato e migliorato.
Oggi siamo dentro a una nuova Resistenza.
Ci siamo dentro e sarebbe ora che tutti se ne accorgessero.
Chiediamoci per quanto tempo ancora le persone saranno disposte a sopportare.
Chiediamoci per quanto tempo ancora le famiglie, gli anziani, i poveri, i giovani, gli artigiani, le piccole imprese, saranno disposte ad essere dimenticate.
Chiediamoci per quanto tempo ancora i lavoratori saranno disposti ad abbassare la testa sotto il ricatto del bisogno.
Chiediamoci che succederà quando un padre inizierà a tornare a casa alla sera a mani vuote.
Chiediamoci che succederà quando una madre non riuscirà più a nascondere a suo figlio dietro un sorriso forzato una tragica realtà di indigenza.
Chiediamoci che succederà quando prenderanno forma palese i nuovi apartheid sociali, tra chi ha tutto e chi niente, tra chi potrà studiare e chi non potrà farlo.
Nell’Italia che ci viene raccontata, tra feste colorate, sorrisi e profusione di ottimismo, ci sono 8 milioni di persone che già vivono queste condizioni, nella povertà e non sanno come comperare pane e medicine.
E sta avvenendo adesso, nel paese del benessere e del “governo del fare”.
Ma di questo non bisogna parlarne, tutto deve essere zittito per non rovinare l’immagine del paese all’estero, come se oltre i nostri confini non si sapesse nulla della nostra situazione interna. Un’idiozia.
Come si fa a non vedere tutto questo?
Come è stato possibile arrivare a questi punti?
Una grande responsabilità sta nelle pieghe di una transizione politica troppo lunga della sinistra italiana e del mondo progressista più in generale che ha lasciato troppo spazio all’antipolitica.
Un adattamento tardivo della sinistra rispetto alla società che si evolveva rapidamente con le sue paure e le sue incertezze che altri hanno saputo cogliere dando le loro risposte.
Sbagliate, ma le hanno date, e quando un paese vive nell’insicurezza guarda più attentamente a chi è in grado di rassicurarlo e di promettere una via d’uscita.
Così è apparso il “governo del fare” agli occhi degli italiani, compatto, deciso, con idee chiare mentre tutta la sinistra e non solo era presa dai suoi problemi di assetto interno, avvolta su se stessa, parlando solo di se, non ha saputo rispondere alla torsione elettoralistica che era inevitabile di fronte a Istituzioni composte da nominati e non da scelte libere dei cittadini.
Un errore al quale la sinistra che vuole portare fuori il paese da questa situazione, la sinistra che vuole governare sta ora cercando di porre rimedio.
Ma l’illusione di scorciatoie possibili non deve trarre in inganno, la battaglia delle idee va vinta nella società e con la società, per non rischiare di fornire alle cronache nuovi martiri.
La battaglia è e sarà culturale, è questo il piano su cui vincere nella società.
La strada sarà lunga, molto lunga, ci vorrà tempo e in questo tempo bisogna resistere ad ogni tentativo populista e restauratore, e bisogna farlo democraticamente, ognuno nel suo spazio sociale, dal Parlamento al posto di lavoro, alle piazze, ovunque bisogna fare sentire la voce del riscatto ma sempre bisogna ascoltare e fare proprie quella di tutti.
Restare avvinghiati a piccole nicchie identitarie può anche far piacere a qualcuno, può anche essere un mezzo per mantenere viva una testimonianza storica importante, ma non potrà mai essere oggi come ieri la molla del riscatto, altri sono i campi di battaglia, altre le aspettative e per questo non potrà essere una vocazione solitaria la molla in grado di cambiare da sola le cose.
A chi pensa che invece sia possibile consiglierei di aprire le finestre e ascoltare la voce di un paese piegato, di ascoltare il respiro affannoso del lavoro.
Aprendo le finestre potranno sentire sulla pelle lo scorrere freddo dell’aria greve delle periferie abbandonate a se stesse, che non sono soltanto luoghi fisici ma luoghi dell’anima dove viene iniettata l’aria avvelenata della sofferenza, del malaffare, un’aria che ogni giorno viene sapientemente distribuita a piccole dosi fatali, lasciando volutamente nel bisogno un numero sufficiente di persone che saranno più facilmente condizionabili e malleabili, pronte a piegarsi a ogni richiesta pur di avere qualche sollievo.
In queste periferie sociali italiane dai confini in costante espansione giunge una richiesta che non è di bandiere o parole d’ordine alle quali non credono più da troppo tempo.
La richiesta è ben altra, è l’alternativa alla loro condizione.
Chi è in grado di ascoltare queste voci dia il suo contributo, faccia la sua Resistenza e lo faccia oggi, chi resta sordo si faccia da parte.
Di capitani di ventura e cacciatori di rendite non si sente alcun bisogno.
…quelli stanno tutti dall’altra parte…..
Non è vero che ci sarà bisogno di tutti, ma solo dei più responsabili.