Quaderni di Frontiera é uno spazio di cultura politica, uno strumento di riflessione pubblica che ha come obiettivo quello di alimentare la discussione allargandone il campo a professionalità e competenze. E’ un luogo dove possono incontrarsi e confrontarsi le diverse tradizioni culturali e politiche, sviluppando idee e proposte in grado di contribuire a ridefinire il campo progressista, guardando all’Europa e alle sfide internazionali.

giovedì 26 novembre 2009

...bisogna riprendere in mano il nostro destino....

In questo momento in Italia non serve inventarsi nulla.
Nulla di particolarmente clamoroso o rivoluzionario.
Neppure escogitare una qualche simbologia accattivante per conquistare il consenso della maggioranza dei nostri concittadini.
Basta guardare i fatti di ogni giorno, partire da quelli, usare cuore e cervello, possibilmente in maniera contemporanea e iniziare un cammino che porti a un assetto istituzionale diverso dall’attuale.
Verrebbe da dire che qualsiasi cosa può soltanto essere migliore di ciò che abbiamo.
Ed è così.
Chi è responsabile capisce che in situazioni come queste qualche sacrificio a beneficio del tutto è necessario.
Capire e calarsi nel disagio, farsi carico dei bisogni di tutti, ascoltare le periferie che soffrono e prendere per mano chi aspetta una parola di aiuto, dargli una sponda, concretamente.
Misurare la forza delle proposte con l’unità di misura della crisi sociale ed economica che si sta attraversando vuol dire parlare alla parte migliore del nostro paese.
Serve fare questo, null’altro che questo.
Solo questo può essere l’impegno di chi ha come obiettivo il bene comune, il miglioramento delle condizioni sociali e il ritorno alla dignità del lavoro.
Nuove generazioni di italiani sono già in movimento, non serve andare a cercarle chissà dove, sono già qui, la nuova classe dirigente è già tra loro, sono nelle università, nelle fabbriche, nell’impresa, nell’associazionismo, bisogna accompagnarla, sostenerla nel cammino verso l’assunzione delle responsabilità che avranno in futuro.
Troppo spesso speranze che sono state suscitate sono con la stessa velocità andate subito deluse, è venuta a mancare la solidarietà tra le persone, molti territori del mezzogiorno sono abbandonati a se stessi, spuntano ovunque fenomeni anarchici e secessionisti, di divisione, si indeboliscono sempre più i pilastri Istituzionali della Repubblica che pare avere consacrato un unico capo di memoria antica.
Di fronte a tutto questo sta lentamente e faticosamente rinascendo una volontà ritrovata di protesta per contrastare democraticamente le palesi pratiche autoritarie che stiamo conoscendo.
La piazza sta tornando a muoversi, a far sentire la sua voce, ma da sola non ce la farà.
Senza il coraggio di afferrare il futuro, senza la forza di uscire dal recinto mediatico e illusorio, senza progetti seri, ci si potrebbe ritrovare senza futuro e senza paese.
Non è più il momento della retorica, serve guardare in faccia la realtà e non è un bel vedere.
Chi sente la responsabilità verso l’Italia faccia un passo avanti e altri ne facciano qualcuno indietro.
L’Italia ha bisogno di quel profilo democratico e liberale che è stato abbandonato, che si è piegato sotto le spinte del populismo interessato alle proprie prebende personali.
Si è piegato appunto, ma non si è ancora spezzato e va sostenuto.
Un’identità che si vuole soffocare, quell’identità popolare che si identifica nella molteplicità dei suoi aspetti e che ha costruito il welfare che conosciamo.
Un’identità che si vuole spegnere e che rivendica la sua dignità, nelle professioni, nell’impresa e nei lavori autonomi o dipendenti che siano, che vuole affermare la prevalenza di questa sua dignità rispetto alle rendite e ai privilegi.
Valori che si vuole minimizzare e volgarizzare sbattendogli sulla faccia l’opulenza conquistata senza ritegno e rispetto a scapito di quella parte del paese che soffre.
Un’opulenza anche istituzionale che impone anche quando si deve nascere e quando si deve morire, un’opulenza sfacciata di pochi rispetto ai bisogni di molti fatta di occultamento della realtà, di minimizzazione delle questioni tragiche di milioni di famiglie, di migliaia di imprese piccole e grandi, con l’abbandono delle fasce più deboli della società, l’azzoppamento dell’innovazione e dell’istruzione, l’isolamento internazionale.
Questa crisi scatenata dalla finanza oramai è noto ha radici in politiche economiche squilibrate, dove si voleva e si continua a voler fare soldi con i soldi, soldi che sanno di sudore, di sacrifici di imprese e cittadini oggi sul lastrico che scontano colpe non loro.
La promessa del benessere diffuso a tutti ha fallito, si è palesata l’inconsistenza di quella promessa, e i pochi ricchi sono rimasti gli stessi e anzi alcuni ancora più ricchi di prima, i poveri sono alla meglio rimasti tali ma la maggior parte sono ancora più poveri.
Ma questa locomotiva liberista che ha travolto tutti gli scambi, spacciata come benefica ha schiacciato tutti i deboli, lavoratori, piccole e medie imprese, famiglie, giovani generazioni che si stavano affacciando sulla scena per costruire una speranza sul loro futuro.
Tutto spazzato via ma ancora vitali nelle pieghe della società.
Quelle pieghe sofferenti dove bisogna portare una nuova speranza, dove bisogna esserci.
Servono quindi nuovi equilibri tra società ed economia, tra capitale e lavoro, perché bisogna comprendere che se uno affonda l’altro lo segue, servirebbe impostare un cammino di razionalità economica da trasferire sul piano culturale e ideale anche rischiando uno sbocco di tipo protezionistico, ma è una sfida sulla quale misurarsi.
La ricchezza da troppo tempo ripartita male o non ripartita affatto fra ceti sociali e fra territori si è accompagnata oramai all’impoverimento strutturale dei redditi dei ceti medi, di quelli medio bassi e soprattutto di quelli più bassi, redditi che sono via via divenuti sempre più occasionali, sempre più precari, dove nessuna certezza è più assodata e confermata, su questi ceti diventati deboli oltre misura si scaricano inoltre anche tutti i disordini di una immigrazione che preme sul più basso degli scalini di reddito, affolla quegli scalini più bassi della scala sociale.
Se non si capisce almeno questo sarà difficile realizzare promesse di un nuovo domani.